Giustizia Giusta

La mia vicenda personale non è così importante.  Al contrario, potrebbe essere un valido paradigma di come nel nostro Paese sia necessario ripensare una parte del sistema giudiziario.

Sono stato iscritto nel registro degli indagati per oltre 60 volte.

E, sempre, a seguito di una denuncia di un avversario politico, mai per un’indagine autonoma e spontanea delle autorità inquirenti. Per più di 30 volte i relativi procedimenti sono stati archiviati su richiesta dello stesso Pubblico Ministero.

Inoltre, per una quindicina di questi provvedimenti sono stato prosciolto dal Giudice dell’Udienza Preliminare, mentre, per i restanti ho dovuto affrontare processi che si sono chiusi tutti con assoluzioni piene, con la più ampia formula: “il fatto non sussiste“.

Cioè, i fatti contestati non sono mai esistiti in rerum natura.

È stato un percorso difficile, tortuoso, a tratti frustrante, soprattutto perché da un punto di vista umano sentirsi ogni volta “accusato ingiustamente” ti segna nel profondo, logora la tua vita intima, personale, i tuoi rapporti affettivi e familiari.

Di tutti questi procedimenti, quello che più ha lasciato una ferita, che per quanto rimarginata non potrà mai più scomparire del tutto, quello che ha cambiato ciò che ero e ha segnato ciò che dopo sono stato, è sicuramente quello per il quale ho subito un provvedimento cautelare in carcere e ai domiciliari per oltre 11 mesi, con l’accusa gravissima e infamante di concorso esterno in associazione mafiosa.

Purtroppo, anche in questo caso, a seguito di una denuncia dei miei avversari politici.

Nella costruzione del provvedimento cautelare ero accusato di aver stipulato uno scellerato accordo politico-mafioso con il locale clan che all’epoca operava a Pignataro Maggiore, il mio comune di residenza: in cambio di voti a sostegno della mia candidatura a Sindaco avrei consentito a questa “famiglia” camorristica di continuare a gestire i beni a lei sottratti e confiscati. Un pentito parlava addirittura di un incontro che avrei avuto con il “boss” per siglare il patto. Ebbene, questo fantomatico incontro non solo non è mai avvenuto, ma non avrebbe potuto essere fatto anche perché nello stesso periodo indicato il “boss” era ospite forzato delle patrie galere. A completare il quadro accusatorio, il poliziotto che aveva condotto le indagini, mio concittadino e, per di più, avversario politico, denunciava una serie di omissioni nella gestione dei beni confiscati.

Nella realtà, questa visione fu resa plausibile dalla mancata e grave acquisizione di importanti atti che dimostravano l’esatto contrario ovvero solo grazie alla mia azione amministrativa i beni erano stati recuperati non solo strutturalmente ma anche riconvertiti per finalità sociali, raggiungendo risultati impensabili come la produzione dei “succhi di frutta della legalità” e  dei “Paccheri di don Peppe Diana”, prodotti dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti con il grano raccolto sui beni confiscati a Pignataro Maggiore.

Più di una volta, in verità, mi sono chiesto, in particolare nei momenti di maggior sconforto, se fossi una vittima di un caso di mala giustizia.

No, è stata sempre la mia risposta.

Non è questo il tema, la magistratura e le forze inquirenti fanno il loro dovere. Il problema vero da affrontare e sul quale è necessario aprire una riflessione, è come schermare il procedimento penale dalle lotte politiche, la tutela dell’azione giudiziaria dal virus della politicizzazione.

Quando la giustizia diventa lo strumento principale che le parti politiche utilizzano nella contesa per aver la meglio dei propri avversari, allora siamo di fronte alla negazione stessa del principio etico a fondamento della Legge. Questa devianza della politica nella giustizia e di quest’ultima nel campo avverso per raggiungere un fine politico è la morte della democrazia.

Non so se la mia esperienza e il mio personale travaglio siano serviti a qualcosa, ma spero e vorrei tanto che aiutassero a salvaguardare l’autorevolezza della politica e quella della giustizia.

#congiorgio